L’ESPERIMENTO DELLA PRIGIONE DI PHILIP ZIMBARDO: THE STANDFORD EXPERIMENT

Una tranquilla domenica mattina di agosto del 1971, a Palo Alto, vengono arrestati degli studenti universitari durante una retata. I colpevoli vengono portati in caserma, si rilevano le impronte digitali e vengono portati in una piccola cella. Di cosa erano colpevoli? Avevano risposto a un annuncio in cui si cercavano volontari per uno studio sugli effetti della vita in prigione.
Settanta persone risposero all’annuncio, tutti i candidati vennero intervistati e sottoposti ad una batteria di test di personalità al fine di eliminare quelli con problemi psicologici, malattie o precedenti criminali e/o di abuso di droghe. Vennero selezionati 24 studenti universitari che avrebbero guadagnato 15 dollari al giorno partecipando ad una ricerca.
La prigione fu costruita nel seminterrato del Dipartimento di Psicologia di Stanford e le celle furono realizzate sostituendo le porte dei laboratori con porte speciali, ogni cella era dotata di telecamere e microfoni per permettere agli sperimentatori di seguire tutto l’esperimento.
I prigionieri dovevano indossare un’uniforme con un numero identificativo e alla caviglia destra ognuno di loro aveva sempre una pesante catena chiusa con un lucchetto. Ai piedi portavano dei sandali in gomma, in testa un berretto fatto di collant per simulare la rasatura. L’uso di numeri identificativi era un modo per spersonalizzare i prigionieri.
Le guardie erano libere di fare tutto ciò che ritenevano fosse utile a mantenere l’ordine e a farsi rispettare dai prigionieri e crearono così le loro regole. Le guardie indossavano un’uniforme color cachi, portavano un fischietto attorno al collo e un manganello e avevano degli occhiali a specchio che impedivano di vedere i loro occhi contribuendo così a renderli ancora più anonimi.
L’esperimento inizia con nove guardie e nove prigionieri. Le prime lavoravano a gruppi di tre, a turni di otto ore; i prigionieri, invece, partecipavano all’esperimento giorno e notte.
Alle 2 e mezza di notte nel primo giorno di esperimento i prigionieri vennero svegliati per la conta. All’inizio, i prigionieri provavano ancora a rivendicare la loro autonomia e quindi le guardie per punirli li obbligarono a fare le flessioni.
Le prime 24 ore trascorsero comunque senza grossi incidenti, ma la mattina del secondo giorno i prigionieri iniziarono a ribellarsi barricandosi nelle celle.
Le guardie chiamarono i rinforzi. Il gruppo del terzo turno raggiunse le guardie già presenti sul posto e anche le guardie del turno di notte rimasero ad aiutare i compagni. Presero un estintore e ne spruzzarono il contenuto dentro le celle. Fecero irruzione all’interno delle celle, spogliarono i prigionieri e costrinsero i capi della rivolta in isolamento.
Una delle tre celle venne dunque chiamata la “privilegiata” e venne assegnata ai tre prigionieri meno coinvolti nella rivolta. I capi della rivolta cominciarono a pensare che quelli della cella privilegiata dovevano essere delle spie e tutti, all’improvviso, divennero sospettosi di tutti.
Dopo neanche 36 ore dall’inizio dell’esperimento il prigioniero numero 8612 iniziò a manifestare disturbi emotivi acuti, pensiero disorganizzato, pianto incontrollato e accessi d’ira. Inizialmente nemmeno gli sperimentatori si resero conto che il ragazzo stava davvero soffrendo e così ci vollero diverse ore per liberarlo e fargli interrompere l’esperimento (ricordiamoci che dai test iniziali era stato definito perfettamente “normale” e non portatore di patologie mentali).
Iniziarono poi a circolare voci di una fuga di massa, si diceva il prigioniero 8612, tornato a casa, stesse organizzando un assalto alla prigione per liberare gli altri prigionieri.
Zimbardo, il capo sperimentatore, si recò al Dipartimento di Polizia di Palo Alto e chiese rinforzi e ovviamente la polizia respinse la richiesta. Zimbardo era talmente coinvolto nell’esperimento che andò via furibondo e disgustato da quella mancanza di cooperazione tra le varie strutture.
Le guardie intensificarono il grado di pressione sui prigionieri, umiliandoli e costringendoli a lavori degradanti e obbligandoli a sessioni infinite di flessioni.
Arrivò poi il momento della visita del prete, il cappellano parlò con tutti i prigionieri e molti di loro si presentarono usando il numero invece che il nome, anche loro erano ormai completamente assoggettati all’esperimento.
L’unico prigioniero che non volle parlare col prete fu il numero 819. Stava male e voleva avere la visita di un medico piuttosto che di un prete, venne convinto a uscire dalla cella e mentre stava parlando al team degli sperimentatori, iniziò a piangere in maniera isterica, così Zimbardo pensò di rilasciarlo.
Ma in sottofondo i suoi compagni iniziarono ad urlare che lui era cattivo e un pessimo prigioniero. Il prigioniero non volle più essere rilasciato perché non voleva essere etichettato in quel modo.
A quel punto Zimbardo disse: “Ascolta, tu non sei il numero 819. Tu sei [il suo nome], e io sono il dottor Zimbardo. Sono uno psicologo, non un responsabile di una prigione, e questa non è una vera prigione. È solo un esperimento, e quelli sono studenti, non prigionieri, proprio come te. Andiamo”.
Improvvisamente il ragazzo ebbe una specie di epifania e rispose “Ok, andiamo”.
La ricerca venne conclusa con dieci giorni di anticipo, i prigionieri erano a pezzi, erano individui somiglianti a prigionieri di guerra o pazienti di un ospedale psichiatrico.